Per il futuro, bisogna fare i conti col passato

Francesco Sandolo governò l’isola ( dal 1952 al 1975 ) con un piglio e una visione politica tutta sua. Dico governò e non amministrò perché la sua conduzione tendeva ad affermare il potere personale. Governò il paese e ne diresse l’ andamento economico, sociale e quello culturale. Non lo amministrò perché non si mosse fra le forze presenti nel paese ( economiche, sociali, intellettuali ) in modo da promuoverne alcune e limitarne altre col fine di far prosperare la comunità.

L’ intento prevalente era l’affermazione della sua autorità nel paese. E sì che, dietro la febbre che nella Nazione stava animando la “ rinascita ”, anche in Ponza era presente una spinta innovativa che aveva le sembianze, seppure accennate, di un fenomeno economico nuovo: il turismo.

Francesco Sandolo fu più attento a controllare le spinte politiche interne al paese ( i partiti contrari, le correnti avverse alla sua ),piuttosto che a indirizzare, quelle vive e fattive, verso un obiettivo di crescita sociale. Ponza rappresentò il ring in cui lui doveva cogliere la vittoria. Conosceva le aspirazioni di ogni nucleo familiare, le affiliazioni, le compiacenze e i rancori e, muovendo le corde delle sanzioni e delle autorizzazioni, tenne stretto il paese in una morsa autoritaria. Per nulla sensibile né alle attese della popolazione né alle tendenze della società nazionale ( che andava realizzando la ricostruzione ).

Il potere personale, null’altro, col favore della corrente democristiana in auge. Nessun progetto di sviluppo del paese, della comunità sociale, dei giovani. Le decisioni deliberative seguivano le compiacenze elettorali.

Le opere realizzate furono generate dalle impellenze che la società ponzese in fermento chiedeva, ma senza un progetto, senza un unitario quadro di riferimento. La strada Panoramica, la banchina a Cala Feola, l’ampliamento del porto borbonico furono sollecitati dalla necessità e non da un disegno preciso e stabilito. Tanto è vero che la banchina di Cala Feola non trovò, dopo la sfortunata rottura, alcun prosieguo, e il porto borbonico da ampliare scosse soltanto le passioni degli isolani ( ricordo che già allora si arrovellavano i pareri ), null’altro.

Si agitavano forze nuove. I pescatori, sotto la spinta della Cassa del Mezzogiorno stavano crescendo come forza economica e presentavano richieste. Il turismo incipiente faceva balenare iniziative e proposte, e trovava sempre più chi si voleva cimentare con quella possibilità.

Sandolo non se ne face paladino, anzi ( la questione SAMIP fu l’esempio più lampante. Tentò di privilegiare gli interessi della miniera a danno dello sviluppo turistico di Le Forna.

Seguì l’amministrazione Vitiello che si insediò col proposito dichiarato di supportare il nuovo che premeva e che anelava partecipare come fattore attivo dello sviluppo economico, ma anche di quello sociale e culturale.

Ci fu un fervore innovativo che scompaginò l’assetto socio-economico precedente. I pescatori, da semplici manovali del mare divennero imprenditori . Si diversificarono le tipologie di pesca, le condizioni di lavoro, i navigli. Divennero una categoria sociale con peso elettorale.

L’imprenditoria turistica ( hotel, ristoranti, affittacamere, affittabarche ) prendeva una fisionomia sua, con problemi, esigenze, richieste, offerte.

Ci fu anche un sussulto culturale, episodico e superficiale, ma vivo e autentico. Mi riferisco alla nascita del Circolo culturale Luigi Verneau, al giornalino ciclostilato Punto Rosso, alle iniziative teatrali e non. Fu episodico perché legato alla presenza sull’isola dei giovani studenti. E dunque c’era animazione a Natale, Pasqua, vacanze estive. Fu superficiale perché rimase circoscritto all’interno del gruppo degli studenti e degli uomini di cultura; non riuscì a scalfire la mentalità collettiva degli isolani.

Seguì infatti una Amministrazione democristiana. Quasi a placare ogni fremito, a sedare ogni sussulto. Perché ? Perché l’agitazione nuoce agli affari e invece le forze economiche, che si erano attivate nel decennio e scalpitavano, avevano bisogno di un clima sociale sopito.

Iniziò la privatizzazione del fenomeno turistico. Ossia, chiunque poteva, si industriò ad allargarsi negli alloggi, a prendere possesso di spazi pubblici, ad inventarsi mestieri, a concedersi licenze. A discapito di quanto avrebbe richiesto una lungimirante visione politica del momento. Ossia l’assunzione pubblica del fenomeno turistico. Occorreva che le opportunità che il turismo prometteva venissero gestite dall’ Amministrazione attraverso un programma di intenti e di interventi.

Si palesò chiaramente lo spirito della forza politica democristiana. Al seguito degli interessi economici prevalenti.

La qual cosa significò anche a – che l’economia divenne l’obiettivo principale della comunità, e dunque il suo arricchimento sregolato; b – che il pubblico, il sociale, il collettivo non trovarono più attenzione né nelle politiche amministrative né nei comportamenti individuali.

La società procedeva da sé, dietro le spinte individuali dei singoli, delle consorterie, del capitale. Senza nessun progetto comune. Il tutto retto da una economia derivante dalla pesca ancora sufficiente e qualificata, e dall’abbondanza trainante dell’economia turistica.

Gli isolani si trasformarono da pescatori e marinai in operatori turistici senza nessuna preparazione, senza un progetto.

Una economia basata e dipendente da fattori incontrollabili: la congiuntura favorevole a livello nazionale, i fattori meteorologici, la buona sorte.

Queste cause non sono evidenziate oggi, lo furono già nel 1984 attraverso il mio libro: Ponza, quale futuro ? Per cui non sono deduzioni a posteriori.

Senza alcun risentimento va detto che le politiche amministrative hanno favorito la privatizzazione del senso civico.

Chiarisco: la vita nell’isola subì un allontanamento dalla sfera sociale, per cui tutto ciò che riguardava il sociale, il collettivo, il comune perse di importanza, di vitalità, di forme. Si privilegiò, si lasciò crescere a dismisura la dimensione privata. E questo anche con Amministrazioni di sinistra.

Il sentimento politico fu subordinato agli interessi dell’appartenenza partitica, lo spirito economico fu lasciato alle iniziative dei privati; il senso sociale fu ridotto ad una pellicola, fragile e superficiale, buona per colorare l’offerta turistica ma non nutrita da un convincimento autentico; il senso religioso fu svenduto ai preti di turno che, allora come ora, ne fanno un uso personale; la cultura paesana, come retaggio dell’anima autentica della comunità, fu lasciata in disparte e dimenticata.

Si credette esclusivamente nella floridezza economica e si lasciarono perire quegli aspetti della vita sociale che rendono viva una comunità. Il sociale si è prima rarefatto, poi divenuto evanescente, infine inesistente.

A danno dei soggetti deboli. Perché ? Perché la privatizzazione ( in tutte le sue forme ) viene praticata da chi può, da chi ha ricchezze e possibilità. La socializzazione delle volontà, degli interessi, delle decisioni, naturale contrappeso, non la pratica il ricco, il possidente, il facoltoso. Non la pratica perché può farne a meno. La socializzazione dei servizi, dei desideri, delle opportunità la richiedono i deboli.

Chi sono i deboli ? Sono i giovani, i vecchi, le donne di casa. Sono soggetti deboli perché la loro vita è in relazione all’andamento della situazione economica nazionale. Non hanno un reddito che li metta al riparo dalle insidie delle crisi. Hanno bisogno del sociale.

Ebbene queste categorie sono rimaste escluse da ogni attenzione pubblica e politica. Ieri come oggi. E lo rimarranno fintantoché sarà l’economia a prevalere come interesse amministrativo prioritario.

Oggi la società ponzese invernale è composta quasi interamente da questi soggetti. Vecchi pensionati, giovani senza lavoro e lontani dagli studi, donne di casa. Sono i custodi delle residenze che dovranno ospitare i turisti estivi.

Sono anche i detentori della cultura paesana. Inconsapevoli, infastiditi detentori dell’ anima isolana. Ma la fragilità dell’organizzazione della vita, in inverno soggetta all’inclemenza del tempo, alla rarefazione dei servizi sanitari, alla penuria dei rapporti collettivi, questa fragilità limita le manifestazioni della tradizione, le tiene chiuse nelle case.

Tutto questo genera provvisorietà, precarietà, insicurezza. Cause queste che confluiscono nel fenomeno dell’abbandono dell’isola, per esistenze più confortevoli.

La società ponzese tende a spostarsi in continente e l’identità culturale si perde.

L’elettorato ponzese ha difficoltà a recepire questi ragionamenti, nonostante che la storia recente del paese li abbia evidenziati, specie per le deleterie conseguenze attuali. Perché l’attualità è figlia del passato.

Ieri come oggi, ma oggi più di ieri si deve prendere coscienza che la politica del lasciare all’iniziativa privata la conduzione della vita isolana è deleteria. Si lascia dietro le spalle, inesorabilmente, la cultura ponzese. Che è poi la vera, autentica ricchezza di questo scoglio.

Perché in fondo questo è Ponza: uno scoglio in mezzo al mare. La sua bellezza non può essere apprezzata da chi viene fa la foto e se ne va. Costui ha bisogno di chi illustri la sua anima. E siamo noi, i ponzesi, deputati a farlo. Senza i Ponzesi l’isola ritornerà un baccello di roccia. Appetito da un mercato che sfrutta e deturpa. Privo di una cultura che in dialetto mostri gli scogli, e dal nome ricordi il Ponzese che vi ha gettato le reti, ne trasse sussistenza e gioia di vivere.

 

Francesco De Luca

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